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  • av Silvia Ripà
    325,-

    Meretrix, prostituta, pellicula, moecha, scortum, lupa sono solo alcuni dei termini che i romani usavano per definire una professionista del sesso. La straordinaria varietà linguistica, dai connotati più o meno dispregiativi, indica una sola cosa: la centralità del meretricio nella società romana. Ma che funzioni assolveva il mestiere più antico del mondo, come si inseriva nella vita quotidiana di Roma, quali persone erano coinvolte e perché si legava ai culti e alle festività religiose? Quando si parla di un tabù è difficile distinguere la tradizione dalla storia. La sensibilità umana, specifica di ogni epoca, sancisce i valori del passato e, di volta in volta, li plasma e ridefinisce. In questo senso la società romana era profondamente sessualizzata proprio come quella odierna: la diffusione di pratiche sessuali in contesti pubblici, o l'aperta tassazione del meretricio, hanno lo stesso identico significato dell'interdizione al sesso dei secoli successivi. La confusione di oggi ha portato a ritenere che, anche per i romani, il sesso comprato fosse un segreto di pochi; e di fatto lo è diventato. È quindi solo agli occhi del presente che appare incomprensibile lo sfacciato legame tra una divinità, Venere, la promiscuità sessuale ostentata nei giorni dedicati e la prostituzione purissima, addirittura sacra, praticata nel tempio; si tratta invece di un'incoerenza solo apparente, dalla quale si intuisce che la compravendita del corpo, con tutte le relative ripercussioni sociali e regolamentazioni giuridiche, non è che un aspetto concreto, forse l'unico alla nostra portata, di una questione umana ben più vitale, dal sapore atavico e misterioso, che affonda le radici nel segreto della vita e della morte.

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